Regolamento Platform to Business per ridurre l’opacità nel rapporto tra imprese e piattaforme digitali
Sono davvero lontani i giorni in cui le piattaforme digitali, anche trincerandosi dietro la Direttiva 31 del 2000 sul commercio elettronico, si ritenevano – ed erano sostanzialmente ritenute – irresponsabili dei contenuti pubblicati: gli anni sono passati, il ruolo che tali soggetti hanno preso a rivestire nella società si è ingigantito, è stato necessario nel tempo apportare delle correzioni continue a tale visione sia con interventi normativi puntuali (es. il diritto all’oblio) sia con riforme organiche di ampio respiro.
È di pochi giorni fa l’approvazione al Parlamento Europeo del Digital Service Act, lo strumento che la Commissione Europea ha introdotto per imporre una maggiore trasparenza degli algoritmi che regolano, su tali piattaforme, la gestione dei contenuti e la personalizzazione dei messaggi pubblicitari affinché siano chiari nei confronti degli utenti e in regola e coerenti con la normativa europea e le leggi nazionali: in particolare la versione del testo approvato si concentra sull’impegno a contrastare la veicolazione di messaggi illegali e contenuti nocivi (es. le fake news) e a impedire la profilazione dei minorenni per una pubblicità mirata. Da semplici piattaforme, oggi social media, motori di ricerca e marketplace sono sempre più rivestiti di elementi di responsabilità, anche oggetto di sanzioni, per i servizi che offrono (o che vi sono offerti per il ruolo tramite di intermediari) ai cittadini, ai consumatori, alle organizzazioni e alle imprese.
Nell’ambito degli interventi che la Commissione Europea sta ulteriormente introducendo meritano poi un’osservazione specifica la riforma della pubblicità politica online e il Regolamento Platform to Business.
Nel primo caso, la proposta pubblicata lo scorso 25 novembre è volta a porre un freno all’uso della pubblicità politica sui social media: in particolare, tale proposta intende limitare le modalità con le quali gli inserzionisti, servendosi di dati personali disponibili nelle piattaforme di pianificazione online, possono servirsi di filtri pubblicitari quali l’etnia, l’appartenenza sindacale, il credo religioso, le opinioni politiche. Con il compito di imprimere una maggiore trasparenza non solo alle piattaforme digitali, ma anche agli attori politici, agli inserzionisti e ai centri media che, su richiesta delle autorità, della stampa, di ricercatori e di associazioni interessate, dovranno dare conto degli investimenti sostenuti in campagne pubblicitarie digitali e fornire i dettagli dei criteri di profilazione adottati, la proposta contiene anche un esplicito freno all’uso di algoritmi di intelligenza artificiale che riducono il controllo umano nelle scelte di targetizzazione.
Nel secondo caso invece, dal luglio 2020 è attivo nell’Unione Europea il cosiddetto “Regolamento Platform to Business”, uno strumento che ha il compito di tutelare l’utente commerciale nei confronti delle piattaforme digitali e dei motori di ricerca nell’ambito dei rapporti che, attraverso tali intermediari, le imprese intessono con i consumatori finali. Tale regolamento, è stato pensato per fornire una garanzia alle aziende così da:
– poter accedere con chiarezza e puntualità ai termini dei servizi resi disponibili dalle piattaforme;
– essere resi consapevoli dei limiti che tali servizi includono o determinano;
– avere contezza delle ragioni per le quali i servizi promossi possono essere sospesi, con un sistema chiaro di avvisi e notifiche.
Pur non imponendo a social media, marketplace e motori di ricerca l’obbligo di pubblicare le caratteristiche dei loro algoritmi, essi sono però tenuti a indicare i principali parametri che determinano il posizionamento dei contenuti e dei servizi offerti dagli utenti professionali ai consumatori e dunque la loro efficacia.
Benchè il regolamento non si applichi ai servizi pubblicitari, si tratta dunque di un passo avanti grazie agli obblighi e alle sanzioni che introduce. Recepito in Italia con la Legge di Bilancio del 2021, il Regolamente prevede infatti non solo sanzioni nel caso di mancato rispetto delle norme (a partire dall’iscrizione ad un apposito registro degli operatori), ma anche adempimenti da parte di questi ultimi per attivare:
– un sistema di gestione dei reclami da fornire gratuitamente all’interno delle diverse piattaforme per risposte agli utenti commerciali in tempi ragionevoli;
– un sistema di mediazione in caso di controversie;
– il pagamento di un contributo atto ad assicurare la copertura dei costi sostenuti per l’esercizio delle funzioni di vigilanza attribuite all’Agcom.
Il blocco di profili social e la penalizzazione della loro visibilità nelle ricerche. La difficoltà ad entrare in contatto con l’assistenza clienti per segnalare casi di contraffazione online e utilizzo illegale dei marchi. Ritardi nella cancellazione di risultati presenti nei motori di ricerca a detrimento del diritto all’oblio. Molteplici e continui sono i casi di difficoltà, per le imprese che vogliono utilizzare le piattaforme digitali, ad interagire con i loro canali di customer care per segnalare disservizi o decisioni opache: non c’è dubbio che il Regolamento possa costituire pertanto un ulteriore pungolo per accrescere la trasparenza e l’efficienza con cui le aziende possono essere presenti online e di conseguenza la qualità che queste ultime possono fornire al consumatore finale.