Stardust vola a Dubai. La media agency punta all’estero e guarda al lusso
“Potrebbe esserci una nuova Stardust a Dubai basata sul lusso”. L’annuncio è di Matteo Luca Brilli, client partner e Strategy di Stardust, la media agency più innovativa in Italia specializzata nella produzione e distribuzione di contenuti digitali sui social media per i più giovani. Fondata nel maggio 2020, la start up nel solo 2021 ha prodotto 1 milione di contenuti e gestito circa 300 campagne social per 70 brand. Attrae oltre 500 creator, influencer e ambassador, la cui attività ha generato nell’ultimo anno oltre 15 miliardi di visualizzazioni. Una realtà di successo acquisita qualche mese fa, per il 30%, dal Gruppo Gedi. A margine di una lezione tenuta al Master in comunicazione all’Università Luiss, abbiamo avuto l’occasione di approfondire con Brilli gli sviluppi di un mercato che in Italia è ancora in fase embrionale ma che all’estero è una professione riconosciuta e ben avviata. E di farci anticipare anche qualche novità in cantiere.
Si fa sempre più un gran parlare di influencer marketing. Ci racconti meglio di cosa si tratta?
L’influencer marketing si sta diffondendo a un ritmo elevatissimo, ma sono poche le aziende e le agenzie che lo fanno bene. È un po’ come quando dieci anni fa si aprivano i profili Instagram o le pagine Facebook per le aziende senza sapere cosa fare. Se prima si usavano i calciatori o le veline, oggi si punta sui personaggi di Tik Tok per le pubblicità. Questo però è fare adv, l’influencer marketing è altro. La differenza è nell’impostazione della strategia e quindi nell’ascolto delle fanbase, nell’analisi dell’engagement race e nella condivisione dei valori tra l’influencer e la marca o il prodotto.
Qual è l’impatto del successo su TikTok nelle vite dei ragazzi e delle ragazze?
Difficilmente percepiscono la differenza tra la loro vita e il loro personaggio. I ragazzi di Stardust House sono loro stessi sempre, a volte è persino difficile farli lavorare con i brand in un certo modo o mantenere una relazione più professionale con determinate realtà.
Cosa succede quando i ragazzi non hanno più successo sui social?
Oggi qualcuno tenta la strada della televisione, altri quella del canto. Secondo me però vedremo nascere una serie di professioni come la content creator o il content curation. Sicuramente le agenzie di comunicazione avranno bisogno di persone che conoscono i social, che sappiano fare le transizioni, seguire i trend e montare video. Vedremo sempre più backstage per questo c’è bisogno sia dei cantanti che degli attori, ma anche dei tecnici. Alcuni ragazzi stanno seguendo la prima strada, altri la seconda.
Oggi le giovani generazioni crescono con l’idea che avere successo sia inevitabilmente più semplice grazie ai social. A quale fenomeno sociale stiamo assistendo secondo il tuo punto di vista e come si svilupperà?
Io lo definisco ‘l’enorme problema della democratizzazione della qualunque’. Oggi tutti possono vivere il sogno americano con il proprio cellulare, non importa se costa 200€ o 2000€. I contenuti inevitabilmente aumentano e hanno anche una resa migliore rispetto a quelli prodotti negli anni passati. Prima c’era il talent scout a definire chi aveva una particolare attitudine e chi no, oggi i social fanno scoprire tantissimi talenti ma allo stesso tempo abbassano drasticamente la media. Bisogna tornare a dare una professionalità a tutto questo, è quello che proviamo a fare in Stardust.
Si leggono listini da capogiro per gli influencer, ma i guadagni sono davvero così alti?
Si vedono dei numeri enormi. Secondo me il problema è legato al metodo di raccolta. Se si fa un’indagine sommando i fatturati prodotti dai centri media, dalle agenzie di comunicazione e dalle agenzie di influencer marketing si sta calcolando per tre volte lo stesso dato perché il fatturato del centro media è stato venduto all’agenzia di comunicazione che l’ha rivenduto al centro media che l’ha rivenduto al cliente. Inoltre vengono sommati anche i costi che ruotano attorno al testimonial. Un esempio: se Bobo Vieri prende 6 milioni di euro per fare la campagna di Gillette vengono sommati anche i costi di produzione dello spot. Oppure quando leggiamo dei 60 milioni di euro guadagnati da Chiara Ferragni si tratta dell’introito di un’azienda che fa comunicazione, non di influencer marketing. È chiaro che tutto quanto fa massa critica e ti dà l’idea della tendenza di dove si sta spostando il mercato.
In Asia spopolano gli influencer avatar nel metaverso. Questo è il futuro anche per l’Italia?
Quello che stiamo vedendo in Cina o in Corea non credo diventerà realtà in Italia perché sono culture che hanno modi estremamente diversi di fruire i social. La Cina ha una struttura sociale abituata al “mono pensiero”: hanno un unico social di riferimento e lì hanno imparato a vivere la loro vita digitale. Non c’è un algoritmo senziente, tipo quello di Instagram o di Tik Tok, ma ci sono degli aggregatori o selezionatori di profili che ti suggeriscono chi e cosa seguire. Ci sono persone che hanno due o tre cellulari diversi a seconda di che cosa devono fare. In Giappone, per esempio, hanno due cellulari, uno per la voce e l’altro per il gaming. In Corea sono estremamente appassionati di musica e di band e guardano molto meno la comedy. Invece in Occidente siamo abituati a volere tanto, tutto.
Discorso diverso invece per gli avatar
Gli avatar sono trasversali e ognuno li declina come vuole. In Asia ce ne sono moltissimi, da noi è usato soprattutto nel settore della moda e del lusso perché i costi per realizzarli sono molto alti e serve fatturare tanto affinché siano sostenibili. Inoltre grazie agli avatar virtuali costa molto meno realizzare un photo shooting e fare tutta una serie di scatti in post-produzione.
I più giovani sono in parte già nel metaverso nell’ambito gaming. Come si può rendere il metaverso trasversale a tutte le generazioni?
Non credo che il metaverso diventerà così diffuso come avere un account su Instagram. Avremo una versione ibrida, navigando dal computer o dal cellulare con il proprio avatar. Non sarà una realtà immersiva, ma un altro modo di navigare e di fare browsing. Succederà nel momento in cui arriveranno a Meta un altro paio di players e la tecnologia si evolverà a sufficienza per muovere una grande quantità di pixel.
È stata da poco annunciata la partnership tra Stardust e Gedi
Per noi significa tanto lavoro in più, stiamo infatti assumendo nuove persone. È una sfida interessante su più fronti. Si utilizzeranno i media people per portare l’influencer marketing nel media mix delle aziende. Su questo abbiamo cominciato a lavorarci già da diversi mesi con dei progetti speciali. Adesso entreremo sempre di più all’interno della routine, anche nella parte di selling di Manzoni advertising provando a capire insieme come arrivare fino alla adv locale, con la promozione sul territorio di inaugurazioni ad esempio.
Come verrà ripensato il presidio sulle piattaforme social delle testate informative?
Stiamo lavorando a nuovi progetti digitali. Indubbiamente si va verso lo stile di Will o Freeda ma cercando di dare una un’impronta meno di broadcasting e più di relazione. Le notizie sappiamo già dove andarle a vedere, forse con tutto questo parlare di social manca un luogo dove poterle argomentare e approfondire tra pari con qualcuno che le porti all’attenzione di un pubblico che quelle notizie non le ha. La generazione Z è abituata a fruire di notizie di quarta mano, non leggono certo Repubblica.
Quali piattaforme userete?
One Podcast di Gedi prenderà sempre più piede, però Instagram e Tik Tok ad oggi sono i posti dove provare a portare un modello che sia di business e anche di meaning per le nuove generazioni. Sperimenteremo. Io personalmente non sono convintissimo che i ragazzi abbiano voglia di sentirsi raccontare qualcosa. Sono molto disabituati al concentrarsi, al dire la loro. Se vedo i ragazzi di Stardust House vedo chi è molto molto interessato e chi è estremamente disinteressato. Non ci sono vie di mezzo.
Quindi il modello sarà un influencer riconosciuto dai ragazzi che racconta le notizie con un taglio più di appeal o un format più conversazionale?
Io credo più nella seconda strada perché il fenomeno degli influencer funziona nel momento in cui sono coerenti con loro stessi e credibili rispetto al loro personaggio. Ma non posso dire di più.
Si sta lavorando per riconoscere la professionalità del social media manager. Qual è il tuo punto di vista sul mondo degli influencer e sulla riconoscibilità del ruolo?
Legislativamente parlando per gli influencer non c’è un percorso avviato, che io sappia. Al momento bisogna solo segnalare chiaramente quando si sta pubblicizzando un prodotto o un servizio nei contenuti. È importante sicuramente tutelare la figura, ma la riconoscibilità ti deve arrivare dall’audience perché si è influencer quando si influenza nella vita reale. Regolamentare la figura non so, capisco la riconoscibilità dell’autore ma non del social media manager che rimane comunque un creativo.
Ci puoi anticipare qualche novità in cantiere?
Potrebbe esserci una nuova Stardust a Dubai, internazionale e basata sul lusso. Entro la fine dell’anno speriamo di riuscire a dare l’annuncio ufficiale.