Trasporto merci: sono 22.000 i container persi nei mari del mondo
Un danno economico per la spina dorsale del commercio e dell’economia globale. Ma non solo: via mare viaggia il 90% delle merci e il 10% sono pericolose. Vanno messe in sicurezza rispettando il processo di imballaggio e segnalazione per evitare anche un danno ecologico
Ogni anno, in media, vengono persi in mare 1.566 container. Il dato è emerso da un’indagine condotta tra il 2008 e il 2022 dal World Shipping Council (WSC), la principale associazione di categoria nell’ambito del trasporto marittimo. Dunque sono circa 22.000 i container andati persi nei mari di tutto il mondo nell’ultima decade.
Se da un lato questo numero può sembrare relativamente contenuto, soprattutto se confrontato con i 200 milioni di container che annualmente solcano gli oceani del Globo, come dichiarato da DNV, società di consulenza e certificazione per l’industria marina, il rischio di danni economici, umani ed ecologici rimane comunque altamente significativo.
La situazione si complica ulteriormente se consideriamo che il 90% delle merci scambiate a livello globale è trasportato via mare (WSC). E così, mentre il mercato continua a crescere, i protocolli di sicurezza e i metodi di fissaggio non hanno seguito il medesimo passo evolutivo. Questa mancanza di evoluzione nel fissaggio dei container si traduce nella loro perdita. Ma, cosa accade quando un container finisce in mare?
“Sappiamo bene che i container dispersi sui nostri fondali marini, e le merci che trasportano, rappresentano una preoccupante fonte di inquinamento per le acque del pianeta”, spiega Ermanno Vicini Ceo di Serpac, società specializzata nella progettazione, sviluppo e vendita di imballaggi ed etichette per il trasporto di merci pericolose. “Meno evidente è la loro capacità, in base al carico e alla sua natura, di galleggiare in superficie per settimane o mesi, agendo come riserva di galleggiamento. Ciò rappresenta un pericolo di impatto per le imbarcazioni ma anche un’opportunità di recupero a costi più contenuti durante il periodo di galleggiamento. Nonostante questo, raramente, le operazioni di recupero vengono messe in atto. I motivi sono perlopiù economici. Il salvataggio richiederebbe sforzi finanziari significativi, senza garanzie sul valore residuo del contenuto, danneggiato dall’acqua infiltrata, rendendo il recupero poco praticabile dal punto di vista economico”.
Immaginiamo che a finire in mare sia un container che trasporta merce pericolosa, come liquidi corrosivi o materie tossiche, cosa accadrebbe ai fini del trasporto e della sicurezza dell’ambiente e di tutti noi?
“I container che movimentano merci appartenenti a una delle 9 classi di pericolo, designate come tali dal regolamento per il trasporto marittimo (codice IMDG) – afferma Vicini – devono essere debitamente segnalati con placche, marchi e pannelli che evidenziano chiaramente la natura del rischio. Queste placche, marchi e pannelli devono resistere all’immersione marina per 3 mesi, come richiesto dal codice IMDG al capitolo 5.3.1.1.1.2. La ragione di questa imposizione è evidente: se un container, galleggiando in mare aperto, perdesse le segnalazioni di pericolo, il recupero e lo smaltimento sicuro delle merci, come anche il sistema di intervento degli addetti, diventerebbero problematici. Pertanto è cruciale che i fornitori di questi prodotti garantiscano la conformità ai regolamenti, assicurando un imballaggio e una segnalazione adeguati per il trasporto sicuro di merci pericolose, nel rispetto dell’ambiente, dei nostri mari e dell’intera collettività”.
Il trasporto marittimo rappresenta la stragrande maggioranza del commercio mondiale. Non è un caso che qualche anno fa, Ban Ki‑moon l’allora Segretario delle Nazioni Unite, lo definì “la spina dorsale del commercio globale e dell’economia globale”. Infatti, come già sottolineato, il trasporto di merci in grandi quantità avviene per il 90% via mare ma cosa meno nota è che il 10% di queste è composto da merci pericolose ai fini del trasporto, come esplosivi, prodotti chimici, profumi, vernici e batterie al litio (World Shipping Council)
“Il trasporto di merci pericolose – sostiene Vicini – è regolamentato da accordi internazionali che variano a seconda della modalità di spedizione, ma convergono nell’obiettivo comune di garantire la sicurezza durante la spedizione. Nel caso specifico del trasporto via mare, il regolamento di riferimento è il codice IMDG. Per essere considerata conforme ai regolamenti, una spedizione deve aderire alle specifiche disposizioni come per esempio quelle di imballaggio, etichettatura e marcatura dei colli e dei container come richiesto dai regolamenti. Tuttavia, il costo di spedizione delle merci pericolose in conformità ai regolamenti è notevolmente superiore rispetto a una spedizione standard, quindi spesso per ragioni economiche o poca informazione si procede non dichiarando correttamente le merci spedite. Eppure, imballare e segnalare adeguatamente le merci pericolose è un dovere e una responsabilità di chi spedisce. Questo contribuisce a ridurre gli incidenti delle navi cargo, le perdite umane, economiche e l’impatto ambientale”.
Il trasporto di merci pericolose via mare, disciplinato dal codice IMDG, segue regole specifiche riguardo allo stivaggio e al posizionamento dei container. Omettere o dichiarare erroneamente tali informazioni rende impossibile rispettare queste normative, accrescendo notevolmente il rischio di incidenti. Ricordiamolo, l’accusa per la non dichiarazione per un imballaggio non conforme e quindi non sicuro oppure per un container non segnalato, può essere considerato attentato alla navigazione.
“La sicurezza nel trasporto marittimo è oggi una questione di grande rilevanza a livello mondiale. Negli Stati Uniti sono nate organizzazioni no-profit che hanno intensificato le ispezioni di sicurezza ai container alle dogane e ai confini per individuare frodi nei carichi, contribuendo così a ridurre il tasso di incidenti pericolosi sulle navi cargo”, conclude l’esperto.