Perché fare sport – anche in azienda – salva la nostra salute e i sistemi sanitari
Secondo uno studio del Carle Illinois College of Medicine (Usa), presentato in occasione del Nutrition 2023, essere fisicamente attivi è una delle otto sane abitudini che possono allungare la vita anche di quasi mezzo secolo.
Incentivare la pratica sportiva con investimenti mirati consentirebbe di generare esternalità positive a livello sociale ed economico. Come indicato nel report del Forum The European House- Ambrosetti, se solo l’Italia si allineasse alla media dei Paesi Ocse in termini di popolazione sedentaria (34,7%), potrebbero essere evitati costi sanitari per 900 milioni di ogni anno.
Manca una cultura del “vivere sano” anche perché non si ha ben chiaro che fare sport e alimentarsi in maniera sana ha un effetto positivo sulla longevità: bisogna diffondere una cultura virtuosa al riguardo. E oggi le aziende possono giocare un ruolo strategico in questo processo di education, partendo da programmi di wellbeing che aiutano i dipendenti a fare sport (in termini di tempo e di riduzione di costo)
di Luca Foresti, CEO Santagostino
e Matteo Musa, CEO & Co-Founder Fitprime
Da diverso tempo ormai, ogni 12 mesi la nostra vita si allunga di due mesi e mezzo; tuttavia, non aumentano gli anni passati in salute, anzi, in alcuni Paesi stanno addirittura regredendo. Quindi viviamo di più, ma sempre meno in salute. Come mai? Perché aumentano gli anni di vecchiaia, perché viviamo in un ambiente inquinato, ma anche per motivi casuali o genetici ed epigenetici, perché i sistemi sanitari a volte sbagliano e, infine, a causa del nostro stile di vita. Secondo la letteratura scientifica, quest’ultimo elemento è il più rilevante ed è anche quello su cui possiamo agire con maggior efficacia. Secondo lo studio del Carle Illinois College of Medicine (Usa), presentato in occasione del Nutrition 2023, il meeting annuale dell’American Society for Nutrition che si tiene a Boston, sono otto le abitudini che possono allungare la vita di quasi mezzo secolo: essere fisicamente attivi, avere relazioni sociali positive, non fumare, evitare la dipendenza da oppioidi, seguire una dieta sana, non bere alcolici regolarmente, dormire bene e gestire lo stress. Tra queste l’attività fisica è al primo posto: riduce il rischio di morte del 46%. Ridurre al minimo lo stress, seguire una buona dieta, non bere eccessivamente e dormire bene sono stati collegati a una riduzione di circa il 20% del rischio di morte.
Eppure, sedentarietà e dieta sregolata sono due costanti di circa tutte le società occidentali. Perché non riusciamo ad apprezzare a pieno il valore di praticare sport e alimentarci in modo corretto?
La trappola degli effetti immediati e degli effetti differiti
In primis, c’è una questione di percezione degli effetti del nostro stile di vita. Infatti, fino ai 50 anni circa possiamo adottare uno stile di vita sregolato quasi senza sentirne gli effetti, tuttavia, dopo quell’età ci ritroviamo a dover fare i conti con le abitudini che abbiamo avuto nei decenni precedenti: e il conto si presenta sotto forma di malattie cardiovascolari, tumori, malattie cardiocircolatorie e respiratorie che abbattono la qualità della nostra vita. Tuttavia, poiché quello che facciamo oggi ha un effetto molto lontano nel tempo e indiretto, tendiamo a trascurarlo.
Questo accade anche quando trascuriamo la pratica dello sport. In Italia oggi ci sono 20 milioni di persone (sui 58 milioni in totale, quindi circa 1 su 3) che fanno sport e in questo modo dedicano una parte del proprio tempo a restare in salute. Secondo L’Osservatorio Valore Sport promosso da The European House-Ambrosetti si legge che se la pratica sportiva fosse nella media Ocse (ovvero 2 adulti europei su 3) il Paese beneficerebbe di risparmi nel periodo 2022-2050 per 32,5 miliardi. Secondo i dati dell’Istituto Superiore di Sanità, la sedentarietà è causa del 9% delle malattie cardiovascolari, dell’11% dei casi di diabete di tipo 2, del 16% dei casi di tumore al seno e del 16% dei casi di tumore al colon-retto. L’Osservatorio Valore Sport ha quantificato in 3,8 miliardi di euro il costo sanitario annuo della sedentarietà in Italia, inteso come somma di costi diretti e indiretti, con un’incidenza sul totale della spesa sanitaria pubblica e privata del Paese pari all’1,7%.
Incentivare la pratica sportiva con investimenti mirati consentirebbe di generare esternalità positive a livello sociale ed economico. E quindi se riusciamo ad agire sulla volontà delle persone e stimolarla, abbiamo trovato la più potente delle medicine. Se ci riusciamo avremo migliorato i sistemi sanitari e la salute in tutto il mondo.
Il ruolo delle aziende, dal welfare al wellbeing
Anche le aziende giocano un ruolo determinante in questo ambito con il wellbeing, un nuovo concetto di welfare che include appunto attività in grado di migliorare lo stile (e dunque la qualità) di vita, che hanno tra le conseguenze positive quelle di portare le persone a stare meglio, quindi lavorare meglio, incrementando la produttività dell’azienda. C’è una certa attenzione al tema: negli ultimi 12 mesi le iniziative sono più che raddoppiate e così anche le aziende molto attive, che però restano ancora una minoranza (18,2%). Tuttavia, ad oggi queste iniziative vengono attivate in maniera episodica ed estemporanea: infatti meno di un quarto delle aziende italiane ha una strategia chiara di wellbeing e ben il 60% non misura i risultati delle proprie attività in termini di effetto sul benessere dei dipendenti e sulla retention. I dati sono tratti dall’indagine Corporate wellbeing in Italia 2023 di Radical HR e ci dicono con estrema chiarezza che siamo all’anno zero del corporate wellbeing in Italia. E quello che manca maggiormente è proprio un approccio strategico. Perché? Il tema è la difficoltà di percepire gli effetti del wellbeing sulla salute delle persone e sui risultati aziendali in quanto sono lontani nel tempo.
La misurazione è in effetti difficile, perché multifattoriale. Come Santagostino osserviamo che per un’azienda è molto facile decidere di pagare una campagna vaccinale anti-influenzale, dal momento che il ritorno sull’investimento è di cinque volte ed è misurabile mettendo in relazione il costo del vaccino, con quello dei giorni di malattia risparmiati per il drastico calo della probabilità di ammalarsi. Invece, non è possibile ridurre in un numero sintetico gli effetti del wellbeing. Proprio per cercare di misurare il benessere – sia nella dimensione aziendale sia in quella individuale e sociale – dei lavoratori cui vengono offerti programmi di wellbeing è nato “Wellbeing & Corporate”, l’Osservatorio di Fitprime da cui si evince che chi inizia a fare sport prova un maggiore benessere generale (86,1%), una riduzione dello stress (56,1%) e un miglioramento della propria performance lavorativa (13%). Se poi è l’azienda a offrire la possibilità di frequentare palestre e centri sportivi a prezzi agevolati e nelle vicinanze di casa, ufficio o in un’altra città, ne deriva non solo una migliore percezione della stessa per il 55,5% degli intervistati, ma anche l’occasione di incominciare a fare sport per le persone inattive (31,3%).
La salute dipende da diversi fattori, come ampiamente dimostrato dallo studio del Carle Illinois College of Medicine, alcuni dei quali determinanti. Gli stili di vita sono tuttavia anche fenomeni sociali che si tramandano (ad esempio in famiglia: si è studiato che chi soffre di obesità spesso viene da genitori a loro volta obesi): pertanto per cambiarli si deve lavorare sulla comunità, non basta agire sull’individuo. E l’azienda in quanto comunità è assolutamente coinvolta. Del resto, in azienda passiamo un terzo del nostro tempo ed è un tempo che condiziona il nostro modo di vivere e di essere.
Le azioni pratiche che possono compiere le aziende
La cosa più importante è lavorare sulla cultura: la comunicazione è un fattore chiave per una diffusione virtuosa della necessità di fare sport per stare bene e può attivare un meccanismo di influenza reciproca in cui le persone si scambiano informazioni utili.
Il secondo strumento a disposizione delle aziende è il wellbeing, l’evoluzione del welfare aziendale. Per molti anni il welfare si è limitato ad incentivi e benefit in busta paga. Il wellbeing, invece è invece più articolato ed è volto a promuove un benessere non solo finanziario, ma anche e soprattutto psicofisico. Benefit, che vanno ad aggiungersi a quelli già offerti, legati però ad incentivare la pratica sportiva, una migliore alimentazione e salute mentale permettendo ai propri collaboratori di stare bene e dunque lavorare meglio, incrementando la produttività dell’azienda. Hanno già cominciato ad offrirli corporate del calibro di Unicredit, Eni, Luxottica, Accenture ed è anche per questo che sono nate diverse piattaforme verticali, soprattutto digitali, attraverso cui le aziende possono erogare questo tipo di servizi.
Infine, il terzo strumento sono le attività aziendali: che possono essere eventi sportivi che l’azienda organizza con l’obiettivo di diffondere il valore dello sport tra i dipendenti (ma anche di fare team building), e che tra l’altro portano effetti benefici misurabili sul conto economico, effetti positivi sulla produttività e fedeltà dell’organico. O ancora, dedicare alcuni spazi aziendali allo sport adibendoli a piccole palestre (pratica in uso nelle multinazionali e nelle grandi aziende, ma quasi del tutto assente nelle pmi, che sono la gran parte delle aziende italiane).
Ancora prima di tutto questo, ad affiancare il lavoro che stanno facendo aziende illuminate, società di servizi o sanitarie, serve però una comunicazione pubblica efficace, che diventa un punto di partenza essenziale per promuovere e consolidare stili di vita più sani.