Big data e ricerca sociale: implicazioni metodologiche e teoriche
Le scienze sociali utilizzano spesso strumenti statistici per argomentare le proprie tesi da un punto di vista quantitativo. Tuttavia, negli ultimi anni, la statistica ha spesso sfruttato nuove, massive, fonti di dati, comunemente chiamate big data. Ciò ha comportato che la distanza tra le tecnologie digitali e la ricerca sociale si sia drasticamente accorciata. Tuttavia, cercare di saldare questi due ambiti implica una discussione sulla natura di entrambi. Questa discussione però, spesso scivola precipitosamente verso scenari drastici e pessimisti, come la “crisi della sociologia empirica”, o il timore che, nel prossimo futuro, i data-scientist possano sostituire sociologi, antropologi, economisti e persino psicologi.
Per qualcuno, i big data non rappresentano solo uno strumento potente, ma un vero e proprio cambio di paradigma. L’utilizzo dei big data viene considerato da molti come una nuova forma di empirismo, che potrebbe segnare “la fine della teoria”, come disse suscitando un certo stupore, Chris Anderson nel 2008 sulle pagine Wired. Secondo questo punto di vista, sarebbe obsoleto e inutile, per uno scienziato, partire da un’ipotesi, verificarle attraverso esperimenti, e, infine, formulare una teoria; al contrario, adottando un approccio data-driven, si potrebbe iniziare direttamente dallo studio dai dati, facendo leva sulla loro quantità, consentendo agli algoritmi di trovare la teoria che meglio descrive il fenomeno in oggetto. Questo tipo di processo rappresenterebbe una sorta di contro-rivoluzione copernicana sul metodo scientifico, in cui la teoria non è più il punto di partenza, ma, al contrario, il raggiungimento finale del processo di data analisi. Questo cambiamento epistemologico riduce l’importanza della causalità a una correlazione significativa, sufficiente a formulare una teoria in un approccio guidato dai big data.
Ovviamente, questo è solo uno scenario e non è affatto detto che il cambio di paradigma avvenga e da un punto di vista teorico non è nemmeno chiaro come inquadrarlo. Questo nuovo empirismo rappresenta per molti scienziati il pieno compimento positivista (e post-positivista): la realizzazione di un progetto di controllo e previsione sociale reso possibile dall’incalcolabile mole di dati disponibili. D’altra parte, non è detto che l’avvento dei big data cancelli, con un unico colpo di spugna, tutti i problemi delle scienze sociali sulla quantificazione del comportamento umano.
Lavorare sui big data potrebbe piuttosto aiutare a risolvere alcuni problemi metodologici che caratterizzano gli studi quantitativi, come la desiderabilità sociale, l’effetto intervistatore, o la sostenibilità economica delle indagini.
Lavorare su big data e non con big data, potrebbe essere dunque una strada percorribile. Una differenza sottile ma sostanziale, in cui il ricercatore sociale sfrutta le potenzialità informative dei big data senza negoziare il suo ruolo chiave nel processo.
La sociologia ha indubbiamente riconosciuto le potenzialità dei media digitali e dei big data, a volte adottando un punto di vista forse troppo pessimista, come nella sociologia digitale critica, a volte adottando un punto di vista troppo “idilliaco”, pensando ai nuovi media digitali come la risposta a tutte le questioni aperte che la sociologia tradizionale si pone. Entrambi questi due punti di vista sono verosimilmente troppo drastici e potrebbero essere dunque fuorvianti. Quel che è certo è che l’uso progressivo dei big data nella ricerca sociale deve però essere sostenuto da un quadro epistemologico plurale ed interdisciplinare, che permetta di includere nuovi dati e strumenti all’interno delle diverse tradizioni paradigmatiche che coesistono nelle scienze sociali. Per affermare questa “epistemologia digitale” i ricercatori devono anche adottare un nuovo punto di vista metodologico, cercando di sfruttare i vantaggi che le tecniche digitali comportano, accanto ai metodi digitali con quelli tradizionali, sia qualitativi che quantitativi.