Dallo smart working al south working

 Dallo smart working al south working

Da ormai un anno un gran numero di lavoratori ha sperimentato forzatamente tipologie di lavoro differenti sia in ambito privato che pubblico. Qualcuno lo ha definito smart working, qualcuno remote working, per altri è stato, più semplicemente, un telelavoro, ma sta di fatto che qualcosa è profondamente cambiato.

Se nelle Pubbliche Amministrazioni lo smart working era un qualcosa di estremamente distante dalle modalità di lavoro di un dipendente pubblico, che tipicamente lavorava per range orario dovendo timbrare un cartellino, con l’epidemia di Covid anche le PA sono state costrette di punto in bianco a intraprendere la strada del lavoro agile, organizzandosi in tempi brevissimi per far rimanere a casa una buona fetta di lavoratori e mettendo loro a disposizione gli strumenti necessari per continuare a produrre. Ecco che esce prepotentemente il concetto di produttività assieme a quello di obiettivi da portare a termine e, in parte, viene messo in secondo piano l’orario del dipendente.

Il privato non è stato da meno. Molte grandi aziende che stavano già sperimentando il lavoro agile, non si sono trovate impreparate potendo mantenere il livello di produttività e, addirittura, effettuando ulteriori risparmi legati all’inutilizzo di uffici, corrente elettrica, riscaldamento, ecc.

Dallo smart working al south working

Le aziende più evolute sono state quelle del nord Italia, dove il concetto di remote working era già una filosofia a cui puntare per migliorare lo status dei propri dipendenti, concedendo spazi e tempi alla famiglia e permettendo così una conciliazione tra quest’ultima e il lavoro. Un dipendente più felice è un dipendente che lavora meglio.

Il passo successivo lo hanno fatto tanti dipendenti di aziende ubicate nel nord che hanno preso la palla al balzo per tornare nelle loro terre d’origine o per trovare qualche paese nel meridione dove le giornate sono meno frenetiche, l’aria più respirabile, il costo della vita più basso, e continuare a fornire i servizi alla propria azienda anche da centinaia di chilometri di distanza.
Ed è proprio il concetto di distanza che viene a perdere di significato. Con l’ampliamento della connessione Internet nel nostro Paese, anche in zone che fino a poco fa non potevano contare su linee performanti, viene a cadere l’impossibilità di muoversi dalle grandi città favorendo così un nuovo movimento, quello del south working, termine coniato da professionisti del sud Italia che invogliano i lavoratori a trasferirsi o ritrasferirsi al sud continuando a lavorare per le aziende del nord.

Contestualmente a questo trend, che nei mesi è andato ad intensificarsi, nelle città del meridione sono nati diversi spazi di coworking, anche sfruttando locali e strutture non utilizzate a causa del Covid, per mettere a disposizione dei lavoratori un’alternativa al proprio appartamento.

Su questo fronte si contrappongono differenti scuole di pensiero, come ad esempio, quella dell’associazione South working che ha realizzato una carta con i principali principi e una mappa con i presidi per arrivare ai pareri negativi che definiscono il south working come una pratica dannosa per le aziende e che trasforma il sud in dormitori del nord, come recentemente dichiarato da Rossella Cappetta, docente di Management e Tecnologia all’università Bocconi di Milano.

Solo il tempo potrà dare ragione a chi ha scelto di sfruttare lo smart working per trasferirsi al sud e terminata la pandemia capiremo come intendono comportarsi le grandi aziende nei confronti dei loro, distanti, dipendenti.

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